"Sulla Fotografia" di Susan Sontag
Inviato: 15/11/2019, 18:14
Due anni fa, nella primavera del 2017 ho comprato da un rivenditore di Torino una fotocamera analogica. Una Canon AE1 Program, una macchina prodotta tra il 1981 e il 1987, non so precisamente quando sia stata prodotta la mia, mi basta sapere che è in condizioni praticamente perfette. Nel corso dell’estate mi sono letto tutti i manuali che sono riuscito a trovare su internet, in biblioteca e nelle bancarelle su come sviluppare un negativo e come stampare in camera oscura. Poi un sabato di settembre sono tornato dal rivenditore e sono uscito con tutto il materiale necessario per la camera oscura: ingranditore, bacinelle, termometro, chimici, lampada rossa, eccetera, eccetera. Da allora ho scattato un mare di fotografie. Per lo più sottoesposte, sovraesposte, mosse, sfocate o semplicemente brutte; ho rovinato pellicole sviluppandole con chimici scaduti, ho sciupato un bel po’ di carta da stampa riuscendo perfino a metterla capovolte sotto l’ingranditore. Alla fine ho collezionato non più di una decina di stampe che posso mostrare con orgoglio. Chi le guarda di solito me le restituisce con un laconico “belle, bravo”, che mi lascia sempre piuttosto perplesso. Cercando di farmi un’idea di che cosa sia una bella foto sono stato incuriosito dal libro di Susan Sontag. A dire il vero sono stato incuriosito anche dalla figura di questa scrittrice americana. Di origine ebraica, newyorkese, lesbica, cosmopolita, pacifista e di sinistra. Il perfetto cliché dell’intellettuale alternativo di un certo periodo. Il libro è composto da 180 pagine ed è una raccolta di sei saggi apparsi dapprima sulla New York Review of Books nel 1977 e poi pubblicati in Italia da Einaudi nel 1979. Curiosamente la Sontag diventò la compagna della celebre fotografa Annie Leibovitz, anche lei di famiglia ebraica, agli inizi degli anni ottanta, qualche anno dopo avere scritto “Sulla fotografia”.
Nel complesso il libro è colto, didascalico, acuto, illuminante e spesso anche terribilmente noioso. La Sontag cerca di spiegare che cosa spinge la gente a fare fotografie. Spesso la ragione sta nel cercare di appropriarsi di una situazione, di un panorama, di una realtà. Lo scatto fotografico è un atto potenzialmente aggressivo, in quanto normalmente cattura l’immagine di persone o cose senza il consenso preventivo degli interessati. Qui la Sontag osserva in maniera molto interessante come questo non avvenisse nella Cina di quegli anni. Quando la fotografia veniva usata solo nelle occasioni ufficiali e dava una versione idealizzata e sempre coerente con gli obiettivi politici del regime. Purtroppo anche qui il libro fa sentire tutti i suoi anni, visto quanto è cambiata la Cina da allora. Anche se è vero tuttora che lo stato cinese controlla i mezzi di comunicazione e perfino internet in maniera molto ossessiva. Il fotografare nel corso di viaggi o vacanze è una attitudine molto pronunciata nei popoli fortemente laboriosi, come gli americani, i tedeschi e i giapponesi. I quali sentono costantemente l’impulso del dovere e dell’essere produttivi. Quindi riempiono i momenti di ozio con una delle poche attività possibili, e cioè fotografare. Mi vengono in mente quelle scenette in cui la moglie rimproverà al marito di assistere passivamente a qualche spettacolo e lo sollecita a scattare almeno delle foto. La fotografia rende più vera la realtà. Si è veramente stati in certi luoghi o vissuto certi avvenimenti solo se si sono documentati quei momenti con delle foto. In un altro passaggio la Sontag osserva come la fotografia sia uno straordinario strumento a favore dell’egualitarismo. Qualsiasi soggetto risulta ugualmente degno di essere fotografato. Una immagine bella può riferirsi a qualsiasi persona, o luogo o cosa. Si può essere ispirati da una particolare fotografia di uno sconosciuto e restare del tutto indifferenti di fronte alla foto di una persona illustre. Foto del tutto casuali e improvvisate di dilettanti possono risultare molto più significative di fotografie studiate e molto elaborate fatte da professionisti. Il segreto per realizzare un’immagine suggestiva, secondo Moholhy Nagy sta nel rilevare cioè che è nascosto, nel “defamigliarizzare” ciò che è comune e banale. Il soggetto spesso è anzi volutamente insignificante, un mozzicone di sigaretta, le spine di una cactus, un sasso. È questa arte? Interessa ai fotografi fare arte? La Sontag risponde di no. Chiedersi se la fotografia sia o meno una forma di arte è una domanda che non ha veramente senso. La fotografia si è ormai totalmente liberata dal complesso di inferiorità con la pittura. Ed ha liberato la pittura dall’esigenza di illustrare in maniera realistica il mondo. La pittura astratta è sorta non a caso dopo che la fotografia ha compiutamente affermato il proprio primato di rappresentazione fedele della realtà (a mio modo di vedere la fotografia è una forma d’arte. Qualsiasi fotografo cerca di comporre delle belle foto, delle foto in qualche modo artistiche).
Le esposizioni di fotografia si moltiplicano sempre più e i più famosi musei ospitano esposizioni personali o tematiche. Anche se risulta quasi impossibile attribuire una fotografia ad un autore nello stesso modo in cui si può attribuire un quadro ad un pittore. Pochissimi fotografi, come Man Ray o Ansel Adam, hanno prodotto un corpus di opere in cui si può individuare uno specifico stile personale.
Alcuni dei saggi centrali del libro danno evidenza degli sviluppi della fotografia e dei principali autori negli Stati Uniti ed in Europa. Sono parti interessanti del libro su cui non mi soffermo, ma che sono indubbiamente utili per conoscere l’evoluzione della fotografia dall’origine sino agli anni sessanta.
Complessivamente lo trovo un libro che vale assolutamente la pena di leggere. È una lettura impegnativa e dal linguaggio a tratti particolarmente oscuro. Fondamentalmente un testo di estetica, con riferimenti alla filosofia, alla storia dell’arte ed a volte anche alla sociologia. Non tratta in alcun modo di tecnica. Va letto con impegno e attenzione. Non sono poche le parti che risultano pesanti, fumose e quindi inevitabilmente noiose (nota dolente la totale mancanza di fotografie, che sarebbe invece state molto utili). Ma poi all’improvviso l’autrice sorprende con una intuizione, una suggestione che ripagano ampiamente della fatica. È un libro scritto, pensato e “vissuto” nel mondo della fotografia analogica e specialmente del bianco e nero. Si sposa poco con il digitale, di cui manca, per ovvi motivo cronologici, qualsiasi riferimento. Né tanto meno sono menzionati selfie o fotografie con i cellulari. Ci sarebbe certo da essere curiosi su quello che la Sontag potrebbe dire al riguardo! Sia lo stile che il contenuto sono totalmente in sintonia con il ritmo slow tipico dell’analogico e del lavoro in camera oscura. Devo anche a questo libro se mi sono convinto ad investire un po di quattrini in una Pentax 67II. Adesso sono in grado di fare disastri anche nel medio formato. Posso dire che almeno lo faccio con una certa cognizione di causa.
Nel complesso il libro è colto, didascalico, acuto, illuminante e spesso anche terribilmente noioso. La Sontag cerca di spiegare che cosa spinge la gente a fare fotografie. Spesso la ragione sta nel cercare di appropriarsi di una situazione, di un panorama, di una realtà. Lo scatto fotografico è un atto potenzialmente aggressivo, in quanto normalmente cattura l’immagine di persone o cose senza il consenso preventivo degli interessati. Qui la Sontag osserva in maniera molto interessante come questo non avvenisse nella Cina di quegli anni. Quando la fotografia veniva usata solo nelle occasioni ufficiali e dava una versione idealizzata e sempre coerente con gli obiettivi politici del regime. Purtroppo anche qui il libro fa sentire tutti i suoi anni, visto quanto è cambiata la Cina da allora. Anche se è vero tuttora che lo stato cinese controlla i mezzi di comunicazione e perfino internet in maniera molto ossessiva. Il fotografare nel corso di viaggi o vacanze è una attitudine molto pronunciata nei popoli fortemente laboriosi, come gli americani, i tedeschi e i giapponesi. I quali sentono costantemente l’impulso del dovere e dell’essere produttivi. Quindi riempiono i momenti di ozio con una delle poche attività possibili, e cioè fotografare. Mi vengono in mente quelle scenette in cui la moglie rimproverà al marito di assistere passivamente a qualche spettacolo e lo sollecita a scattare almeno delle foto. La fotografia rende più vera la realtà. Si è veramente stati in certi luoghi o vissuto certi avvenimenti solo se si sono documentati quei momenti con delle foto. In un altro passaggio la Sontag osserva come la fotografia sia uno straordinario strumento a favore dell’egualitarismo. Qualsiasi soggetto risulta ugualmente degno di essere fotografato. Una immagine bella può riferirsi a qualsiasi persona, o luogo o cosa. Si può essere ispirati da una particolare fotografia di uno sconosciuto e restare del tutto indifferenti di fronte alla foto di una persona illustre. Foto del tutto casuali e improvvisate di dilettanti possono risultare molto più significative di fotografie studiate e molto elaborate fatte da professionisti. Il segreto per realizzare un’immagine suggestiva, secondo Moholhy Nagy sta nel rilevare cioè che è nascosto, nel “defamigliarizzare” ciò che è comune e banale. Il soggetto spesso è anzi volutamente insignificante, un mozzicone di sigaretta, le spine di una cactus, un sasso. È questa arte? Interessa ai fotografi fare arte? La Sontag risponde di no. Chiedersi se la fotografia sia o meno una forma di arte è una domanda che non ha veramente senso. La fotografia si è ormai totalmente liberata dal complesso di inferiorità con la pittura. Ed ha liberato la pittura dall’esigenza di illustrare in maniera realistica il mondo. La pittura astratta è sorta non a caso dopo che la fotografia ha compiutamente affermato il proprio primato di rappresentazione fedele della realtà (a mio modo di vedere la fotografia è una forma d’arte. Qualsiasi fotografo cerca di comporre delle belle foto, delle foto in qualche modo artistiche).
Le esposizioni di fotografia si moltiplicano sempre più e i più famosi musei ospitano esposizioni personali o tematiche. Anche se risulta quasi impossibile attribuire una fotografia ad un autore nello stesso modo in cui si può attribuire un quadro ad un pittore. Pochissimi fotografi, come Man Ray o Ansel Adam, hanno prodotto un corpus di opere in cui si può individuare uno specifico stile personale.
Alcuni dei saggi centrali del libro danno evidenza degli sviluppi della fotografia e dei principali autori negli Stati Uniti ed in Europa. Sono parti interessanti del libro su cui non mi soffermo, ma che sono indubbiamente utili per conoscere l’evoluzione della fotografia dall’origine sino agli anni sessanta.
Complessivamente lo trovo un libro che vale assolutamente la pena di leggere. È una lettura impegnativa e dal linguaggio a tratti particolarmente oscuro. Fondamentalmente un testo di estetica, con riferimenti alla filosofia, alla storia dell’arte ed a volte anche alla sociologia. Non tratta in alcun modo di tecnica. Va letto con impegno e attenzione. Non sono poche le parti che risultano pesanti, fumose e quindi inevitabilmente noiose (nota dolente la totale mancanza di fotografie, che sarebbe invece state molto utili). Ma poi all’improvviso l’autrice sorprende con una intuizione, una suggestione che ripagano ampiamente della fatica. È un libro scritto, pensato e “vissuto” nel mondo della fotografia analogica e specialmente del bianco e nero. Si sposa poco con il digitale, di cui manca, per ovvi motivo cronologici, qualsiasi riferimento. Né tanto meno sono menzionati selfie o fotografie con i cellulari. Ci sarebbe certo da essere curiosi su quello che la Sontag potrebbe dire al riguardo! Sia lo stile che il contenuto sono totalmente in sintonia con il ritmo slow tipico dell’analogico e del lavoro in camera oscura. Devo anche a questo libro se mi sono convinto ad investire un po di quattrini in una Pentax 67II. Adesso sono in grado di fare disastri anche nel medio formato. Posso dire che almeno lo faccio con una certa cognizione di causa.